di Salvo Barbagallo
C’è da stupirsi dello “stupore” che molti Paesi (USA in testa) stanno mostrando vedendo la reazione che Erdogan sta portando avanti dopo il fallito golpe di parte dell’esercito. C’è allarme in tutto il mondo per l’epurazione di massa in corso
e ancora non completata (sessantamila persone fra militari, insegnanti, imam e oppositori vari) e la minaccia del ricorso alla pena di morte. A essere più preoccupati, ovviamente, gli Stati Uniti d’America accusati di avere “favorito” il tentativo di colpo di Stato, e accusati principalmente di “proteggere” il personaggio che Erdogan ritiene essere l’ideatore, non tanto occulto, del “pasticcio” militare, cioè Fethullah Gülen, magnate, capo religioso, finanziatore di un movimento d’opposizione, finanziatore di università e scuole proprio in Turchia. Recep Tayyip Erdogan, come Saddam Hussein, e Muammar Gheddafi, da “interlocutori”, “collaboranti”, “alleati” poi nemici da eliminare, come puntualmente è avvenuto.
La Turchia, da Paese meraviglioso, meta privilegiata del turismo internazionale, oggi è l’incognita che presenta un futuro troppo incerto, un futuro che in molti vorrebbero cambiare, ma che oggettive difficoltà ne impediscono una trasformazione “gradita” e “accettata” sia dall’Europa che dagli USA.
Che il fallito golpe presenti lati oscuri appare più che evidente: basti tenere conto e ricordare in riferimento ai “sospetti” di un “coinvolgimento” statunitense, che i militari turchi non si sono mai mossi senza il via libera degli Usa, che, fra l’altro, hanno commentato gli eventi solo dopo alcune ore.
Sfumata per il momento la spinta di avere una Turchia membro effettivo dell’Unione Europea, resta il dato inconfutabile che la Turchia è componente attivo e non di secondo piano dell’apparato NATO. Secondo indiscrezioni riportate dal quotidiano La Repubblica, la rete di comunicazione della Nato sarebbe stata usata per coordinare i movimenti del golpe sfuggendo così alla sorveglianza dell’intelligence. Erdogan ha lanciato le sue accuse non appena il golpe era stato sventato: almeno un aereo cisterna dalla pista di Incirlik avrebbe rifornito di carburante gli F-16 golpisti impegnati nel bombardamento dei palazzi governativi e probabilmente nel tentativo di eliminare lo stesso Erdogan ritenuto presente nella sua residenza estiva.
Ci si ritrova, dunque, davanti ai paradossi dei “contrasti” che possono considerarsi “nodi” da sciogliere necessariamente in tempi brevi. Non solo in riferimento alle relazioni tra Turchia/Erdogan e USA, ma tra Turchia/Erdogan e Nato. E proprio a riguardo della Nato c’è da chiedersi che fine ha fatto la flotta di quattordici navi della marina turca in pattugliamento nell’Egeo e nel mar Nero che risultano disperse, mentre i loro comandanti sono sospettati di essere cospiratori e contemporaneamente non si hanno più notizie dello stesso comandante della marina militare, ammiraglio Veysel Kosele.
In questa situazione chi spingerà il pedale sull’accelleratore di una macchina (apparentemente e quasi) fuori controllo? Il paradigma che una guerra può salvare tutto non è praticabile: sommare guerre a guerre può provocare solo ulteriori disastri, come gli avvenimenti degli ultimi anni hanno ampiamente dimostrato.
Comprendere pienamente cosa abbia significato il mancato colpo di Stato in Turchia potrebbe offrire una lettura più chiara della situazione che si sta vivendo che, in un modo o in un altro, pesa su tutti. Nessuno escluso.